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Delegazione dell'Unione Astrofili Italiani

per la Provincia di Trieste

"VIAGGIO NEL PROFONDO - CIELO": LA NEBULOSA DI GUM

Stefano Schirinzi • dic 10, 2021

Escludendo la Via Lattea, che avvolge la nostra visuale scorrendo per 360° attraverso tutta la volta celeste, è lecito chiedersi quale sia il più vasto tra i cosiddetti oggetti del "profondo cielo". Domanda dalla risposta tutt'altro che scontata. Escludendo da subito le deboli nubi gassose poste ad elevata latitudine galattica, diciamo subito che non si tratta dell'anello di Barnard in Orion, come erroneamente da molti ritenuto, ne di qualche altra nebulosa più o meno nota come, ad esempio, il complesso di Rho Ophiuchi o lo Sharpless 264 centrato sulla stella Heka (λ Orionis). No, nessuno di questi. A detenere il record di estensione, arrivando a quasi 40° di larghezza, è la nebulosa di Gum, che si staglia sulle costellazioni australi Puppis e Vela: sopra visibile, nella bellissima anteprima ripresa da Russell Cockman.

Le dimensioni della enorme nebulosa di Gum confrontate con la Grande Nube di Magellano (in basso a dx) e le stelle dell'asterismo noto come "falsa croce", al centro, delineata dalle stelle κ Velorum, δ Velorum, ι Carinae ed ε Carinae. L'astro luminoso a dx è Canopus (α Carinae), seconda stella per luminosità dell'intera volta celeste dopo Sirius.

(Image credits: P. Horálek/ESO)

Prima di andare a conoscere nel dettaglio tale oggetto-record, è doveroso fare una premessa. Negli ultimi anni, l’evoluzione della tecnologia di ripresa ed elaborazione delle immagini riprese con i grandi telescopi, solitamente effettuate a più frequenze nello spettro elettromagnetico oltre a quella prettamente visuale, sta fornendo risultati a dir poco sbalorditivi. In questo ambito, le galassie a spirale, soprattutto quelle vicine, iniziano a rivelare più che distintamente i milioni o meglio, i miliardi, di stelle che popolano le loro bellissime braccia a spirale, laddove fanno anche presenza numerose chiazze - le cosiddette regioni HII - fanno bella presenza grazie al loro colore tipicamente purpureo, importanti indicatori della presenza delle stesse braccia a spirale e che assumono le forme più diverse.


Si tratta di vaste aree gassose, principalmente composte da idrogeno, la maggior parte delle quali risplendono per incandescenza laddove vi è la presenza di stelle estremamente calde - per intenderci, quelle appartenenti ai tipi spettrali O e B - le cui immani radiazioni ultraviolette rilasciate nello spazio vanno a spogliare gli atomi di idrogeno del gas dei loro elettroni; questo gas, che risulta quindi ionizzato, brilla a diverse frequenze ma in particolare quella a 6563 Angstrom, caratteristica per il suo colore rossastro, è proprio quella che “marchia” cromaticamente queste vaste nebulose diffuse. Sempre nelle braccia a spirale, ma anche nelle più piccole galassie dalla forma tipicamente irregolare, si scorgono poi altre nebulose caratteristiche per la loro forma a “bolla”: si tratta dei cosiddetti “resti giovani di supernova”, ovvero ciò che resta di stelle vissute in un lontano passato e che hanno concluso la loro esistenza in maniera catastrofica: immani deflagrazioni che hanno rilasciato nel Cosmo queste bolle di gas in espansione, intrise, tra l’altro, di quegli elementi “pesanti” creati proprio dalle supernovae.

Con i risultati così ottenuti tramite queste foto a largo campo, nel 1955 Gum pubblicò l'omonimo catalogo che contava ben 84 nebulose e complessi nebulari, molte delle quali prima sconosciute e da lui stesso scoperte. Tra questi nuovi oggetti, ve ne era uno - denominata Gum 12, ovvero dodicesimo della lista - che si presentava davvero al di fuori della norma: una enorme, gigantesca nebulosa estesa per oltre 30° che si stagliava sulle costellazioni Vela e Puppis, coprendole nella loro interezza: mai prima di allora una simile struttura di tali proporzioni era stata osservata nella nostra galassia! Per avere un’idea delle sue dimensioni che tanto scalpore fecero, se i nostri occhi fossero capaci di isolare la rossa radiazione che la nebulosa emette, essa apparirebbe estesa su oltre metà del campo della nostra vista!


Le dimensioni e l’aspetto di questa vasta nebulosa suggerirono che potesse essere un resto di una supernova, esplosa a breve distanza dal Sistema Solare ma in un epoca assai remota, sicuramente diversi millenni addietro; tale ipotesi, formulata dallo stesso Gum, venne presto suffragata dal fatto che la cosiddetta nebulosa delle Vele (Gum 16), all’epoca già nota e dallo stesso astronomo inclusa nel suo catalogo, si proiettava nei pressi del cuore della nebulosa da lui individuata, pur in una posizione lievemente eccentrica rispetto al suo reale centro geometrico: e proprio la nebulosa delle Vele era da tempo sospettata essere essa stessa un antico residuo di supernova!


La lentezza con cui si muovevano nel Cosmo i suoi filamenti gassosi e la loro diluizione rendevano però pressoché impossibile sia il calcolo dell’età che identificarne l’eventuale residuo centrale. La scoperta di Gum indusse comunque ad intensificare gli sforzi e, in breve tempo, radioastronomi australiani riuscirono ad identificare a poca distanza dall'area centrale di tale nebulosa una stella di neutroni, la pulsar PSR0833-45, dal periodo di rotazione pari a 89 millisecondi (!), valore record per l'epoca in quanto relativamente lungo per una stella di quel tipo: da questo, ad ogni modo, fu possibile risalire all’epoca della nascita di tale pulsar e, di conseguenza, all’esplosione della supernova che diede vita ad essa e alla nebulosa stessa: evento che venne posto tra 11.000 e 12.000 anni fa. In epoca priva di documenti scritti, quella preistorica, per un evento di simile portata che venne senza dubbio osservato dall'uomo dell'epoca: tenendo infatti conto della distanza, valutata in circa 800 anni-luce, la supernova delle Vele dovette raggiungere una magnitudine apparente pari a -9, rendendosi perfettamente visibile anche in pieno giorno e splendendo almeno un centinaio di volte più delle successive (e purtroppo assai rare!) supernovae apparse in epoca storica. Nel 1977, un altro gruppo di astronomi australiani, utilizzando il telescopio Anglo-Australiano da 3,9 metri di diametro cui venne affiancato un otturatore estremamente rapido, riuscì a dopo una lunga ricerca a rilevare una debolissima stella di ventiquattresima magnitudine che emetteva impulsi luminosi con lo stesso periodo osservato nelle onde radio: per la prima volta, seconda in assoluto dopo quella osservata nella famosa "nebulosa del Granchio", anche la pulsar delle Vele si rese finalmente visibile nella sua controparte ottica!


L’aspetto sfilacciato e la tenue luminosità della nebulosa delle Vele sono sicuramente indice della sua antichità, concetto confermato anche ad altre lunghezze d’onda quali le onde radio, nelle quali tale nebulosa appare frammentata e disomogenea, ben diversa dall’aspetto grosso modo circolare e ben definito dei resti di supernovae più recenti sparsi nella Via Lattea e in altre galassie: nel caso del residuo delle Vele, infatti, il mezzo interstellare ad essa circostante ha avuto lungo tempo a disposizione per agire sull’involucro gassoso in espansione, rallentandolo fin quasi a fermarlo o, comunque, provocandone le deformazioni e le frammentazioni osservate laddove la distribuzione del mezzo interstellare stesso è disomogenea. Anche nella banda spettrale X, la nebulosa rivela un simile andamento: il massimo di emissione si ha infatti in corrispondenza della pulsar centrale, che appare come una sorgente molto intensa, situata quasi al centro della nebulosa, mentre altre zone di comunque dalla luminosità X notevole sono sparpagliate all'interno del resto di supernova.


Come già accennavamo prima, la distanza media della nebulosa di Gum (così come questo vasto complesso gassoso venne denominato per onorare la scomparsa del suo scopritore, morto prematuramente a soli 36 anni in un banale incidente di sci) è pari 1470 anni luce ma essa spinge le sue propaggini più vicine nella nostra direzione inglobando la stessa nebulosa delle Vele.


Osservandone la distribuzione in termini di profondità spaziale, la sua reale estensione coincide grossomodo con lo spazio compreso tra due stelle intrinsecamente estreme per mass e luminosità: Regor (γ2 Vel) e Naos (ζ Pup); proprio per questo motivo, venne ipotizzato che l'immensa nebulosa di Gum potesse essere in realtà un'antica sfera di Strömgren, una di quelle bolle di idrogeno ionizzato localizzate attorno a caldissime stelle di O o B esattamente come le due sopra citate: astri, cioè, la cui intensissima radiazione induce la luminescenza del gas, sospinto radialmente in direzione esterna ad esse sia dalla medesima radiazione che dagli intensi venti stellari da esse propaganti. Secondo altre ipotesi più recenti, la nebulosa di Gum sarebbe invece, così come quella delle Vele, un resto di supernova che però sarebbe esplosa molto tempo prima ma la cui luminescenza sarebbe ancora una volta attribuibile ancora una volta alle due massicce stelle azzurre sopra accennate.

Splendida immagine che ritrae due oggetti sovrapposti nello stesso campo, essendo situati a distanze diverse dal Sistema Solare: davanti alla nebulosa di Gum (di colore rossastro), si sovrappone il cosiddetto "resto di supernova delle Vele", visibile nei sottili filamenti di colore verdastro, stella esplosa circa 11.000 anni fa.

(Image credits: Dieter Willasch)

Regor (γ2 Vel)

Naos (ζ Pup)

Esistono indizi che potrebbero fornire una prova definitiva sulla sua origine?

A tal fine, una assai probabile risposta arriva dal contesto galattico in cui essa è immersa; nei pressi della nube è infatti presente l’associazione Vela OB2. Si tratta di gruppi che possono contenere da poche unità fino a centinaia di stelle giovani, calde e massicce dei primissimi tipi spettrali (da cui il nome). A tale associazione appartiene proprio Regor - apparentemente non lontana al centro della vasta nebulosa - che è un complesso sistema costituito da almeno sei stelle le più importanti delle quali sono una Wolf-Rayet, la più vicina stella di questo tipo a noi, ed una supergigante O legate gravitazionalmente tra loro. Anche Naos è una supergigante di tipo O, ma ha la peculiarità di essere nata in un'altra zona, precisamente nell'ammasso stellare Trumpler 10; questo è stato possibile dedurlo retrocedendo di tempo e direzione il suo elevato moto proprio che la rende questa stella estrema una cosiddetta "fuggitiva": lontana circa 1090 anni-luce da noi, Naos è "ora" situata nella parte della nebulosa di Gum a noi rivolta.


Detto questo, mettendo in relazione l'origine della nebulosa con l'attuale posizione di Naos, una teoria che salta fuori da tale quadro descrive che la nebulosa di Gum sia stata creata dall'esplosione di una passata compagna di Naos; scomparendo di colpo, a seguito del catastrofico evento, il centro di gravità cui la sua orbita era legata, essa partì letteralmente “per la tangente” ad altissima velocità, quella ancora oggi osservata. Tra l'altro, è stato notato che i bordi dell’immensa nebulosa di Gum si espandono in modo differente fra di loro: la parte rivolta verso il Sole sembra infatti avvicinarsi più velocemente rispetto a quella che, al lato diametralmente opposto, se ne allontana, quest'ultima probabilmente ostacolata dalla presenza del cosiddetto “Vela molecular ridge”, un altro vasto complesso di nubi molecolari giganti situate oltre la nebulosa.


Come detto, gli eventi che generarono la nebulosa di Gum avrebbero avuto luogo molto molto prima di quelli della supernova che produsse la più vicina nebulosa delle Vele: da 1 a ben 6 milioni di anni fa! Gli strati gassosi espulsi in quello scoppio così temporalmente lontano continuano ad espandersi ancora oggi, pur a bassissima velocità, stimata sul migliaio o poche centinaia di chilometri al secondo. Ciò è comunque sufficiente a provocare una certa compressione del mezzo interstellare circostante e il susseguente riscaldamento del gas che va ad impattarci sopra, generando le emissioni X e UV osservate; nella regione delle onde d’urto vengono compresse anche le linee di forza del campo magnetico interstellare, la cui intensità viene enormemente aumentata; in questo contesto, gli elettroni presenti nel gas in espansione vengono accelerati dal campo magnetico, emettendo una certa radiazione - detta “di sincrotrone” - effettivamente osservata nelle onde radio.


Fino ad oggi, le ricerche radio condotte in quell'area celeste non sono riuscire a scovare la stella di neutroni che sarebbe dovuta rimanere come residuo di questa antica esplosione, la qual cosa porta a supporre che la stella esplosa come supernova che ha generato la nebulosa di Gum ha forse prodotto qualcosa di molto più esotico ma allo stesso invisibile e spaventoso: un buco nero. Forse il più vicino al Sistema Solare? Nessuno lo sa.


Osservando il cielo australe nella direzione delle costellazioni delle Vele e della Poppa, pur non vedendoli ad occhio nudo, siamo certi che il nostro sguardo punta verso aree che in lontanissime epoche passate hanno visto accendersi più volte stelle giunte alla fine della loro agonia i cui residui, oggi osservati, vanno addirittura a sovrapporsi, quasi abbracciandosi a ricordo di quegli eventi. Certo è che, che tutto l'enorme involucro gassoso della nebulosa di Gum, oggi in una avanzatissima fase evolutiva, è destinato a raffreddarsi progressivamente, diluendosi completamente nel mezzo interstellare circostante fino a scomparire per sempre nel giro di qualche milione di anni.

La Via Lattea australe e la nebulosa di Gum; notare le dimensioni comparate con la nota costellazione di Orione, visibile in alto a destra (foto: Juan Carlos Casado)

Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 28 set, 2022
Situata in Sculptor, IC5332 è una bellissima e luminosa galassia a spirale vista esattamente di fronte, lontana circa 30 milioni di anni-luce dalla nostra. Sorprendenti dettagli erano stati già messi in evidenza dalla splendida immagine (a sx) ripresa dalla camera Wide Field 3 installata sul telescopio spaziale Hubble (NASA/ESA): tale strumento, oltre a produrre immagini eccellenti nel visibile, estende la propria capacità nel riprendere anche il vicino UV e il vicino IR. Nella ripresa di HST, si rende visibile la netta differenziazione tra stelle giovani, presenti nel disco della galassia, e quelle vecchie, risiedenti nella regione centrale della galassia e nel suo alone; ben discernibili anche le numeroso associazioni OB, composte da luminosissime e caldissime stelle azzurre nate da densi apparati nebulari sparse nelle braccia a spirale. IC5332 è stata ripresa anche da James Webb Space Telescope attraverso la camera MIRI (Mid-Infrared Instrument), che osserva nel medio infrarosso tra 5 µm e 28 µm. Il medio infrarosso è incredibilmente difficile da osservare dalla Terra poiché gran parte di queste lunghezze d'onda viene assorbito dall'atmosfera terrestre ( ...e il calore della stessa atmosfera terrestre complica ulteriormente le cose ): mentre Hubble non ha potuto osservare nel medio infrarosso in quanto i suoi specchi non erano abbastanza freddi, MIRI dispone di un sistema di raffreddamento atto a garantire che i suoi rivelatori siano costantemente mantenuti alla temperatura di -266° C ovvero solo 7 K al di sopra dello 0 assoluto. Nette ed immediatamente evidenti sono le differenze tra queste due immagini riprese nello stesso soggetto. Mentre in quella di HST (a sx) regioni scure sembrano separare le braccia a spirale della galassia, l'immagine di JWST (a dx) mostra un enorme groviglio dovuto alla grande quantità di polveri presenti in tali strutture, ricalcandone la forma; la polvere interstellare, infatti, non disperde luce infrarossa e si rende qui ben visibile.  Prestando attenzione, è possibile notare come tali polveri circondino un fittissimo numero di aree circolari, simili a buchi: si tratta, probabilmente, di aree dove la polvere è stata radialmente spazzata, addensandosi ai bordi di tali bolle, dall'esplosione di supernovae e ipernovae. (Image credits: ESA/Webb, NASA & CSA, J. Lee and the PHANGS-JWST and PHANGS-HST Teams)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 28 set, 2022
Tra i circa 25.000 NEO conosciuti - corpi minori del Sistema Solare quando la cui orbita può intersecare quella della Terra - circa 2.000 di questi oggetti sono ritenuti "oggetti potenzialmente pericolosi" per il nostro pianeta; particolarità che accade quando quando la distanza minima tra questi oggetti e l’orbita terrestre scende al di sotto di di 0,05 UA (l'equivalente di circa 7,48 milioni di km). Anche se tale valore, almeno a prima vista, può apparire enorme, le dinamiche gravitazionali che possono interferire su piccoli corpi al di sotto di quella soglia hanno la capacità di portare, a tutti gli effetti, piccoli asteroidi (o anche comete) ad impattare contro la Terra. Cosa fare, nel malaugurato caso in cui tale prospettiva dovesse accadere? I film di fantascienza hanno più volte presentato scenari apocalittici di questo tipo presentando, parimenti, anche l'unica idea che, al momento può essere realizzata nella realtà: quella di deviare la loro orbita dal potenziale impatto contro il nostro pianeta. In linea teorica, sono diversi i metodi che potrebbero indurre un asteroide a "spostarsi", quel poco che basta; negli ultimi anni, la NASA ha sviluppato la missione DART (acronimo di Double Asteroid Redirection Test), atta a valutare l'effetto di un "impattatore" indirizzato su un piccolo asteroide. E l'esperimento è avvenuto proprio ieri: precisamente, sull'asteroide 65803 Dimorphos, un oggetto dal diametro indicativo di 160 m, situato in orbita attorno al più grande 65803 Didymos (largo indicativamente 780 m), con il quale forma una cosiddetta "coppia binaria" di asteroidi. DART è stata lanciata tramite vettore SpaceX il 24 novembre 2021 ed ha impattato su Dimorphos ad una distanza di "soli" 11 milioni di chilometri dalla Terra. Poco prima dell'impatto, la camera "Didymos Reconnaissance and Asteroid Camera for Optical Navigation" (DRACO), installata sulla sonda kamikaze, è riuscita a catturare la sequenza di immagini che qui presentiamo: inizialmente, sia Didymos che il più piccolo Dimorphos si rendono visibili mentre alla fine, man mano che DART si avvicina sempre più alla sua superficie, Dimorphos riempie tutto campo visivo. L'ultima immagine "completa" dell'asteroide è stata ripresa da un'altezza di circa 12 chilometri dalla superficie e solo 2" prima dell'impatto, prodotto alla notevolissima velocità prossima ai 23.000 chilometri/ora: qui, l'area dell'asteroide visibile occupa circa 31 metri di lato. Solo 1 secondo prima dell'impatto, DART ha inviato l'ultima ripresa, che appare solo parziale in quanto durante l'invio dei dati verso la Terra, la sonda si è schiantata: qui, DART si trovava a 6 chilometri sulla superficie di Dimorphos e l'area visibile occupa circa 16 metri. La NASA ha assicurato che il test è riuscito, dando per probabile una deviazione, pari all'1%, dell'orbita di Dimorphos attorno a Didymos (i dati, ancora in acquisizione, verranno meglio analizzati nei prossimi giorni); inoltre, l'impatto e il suo effetto sono stati filmati dalle telecamere del satellite LiciaCube (Agenzia Spaziale Italiana). Parallelamente, anche i telescopi spaziali James Webb (NASA/ESA/CSA) e Hubble (NASA/ESA) sono stati puntati su Didymos per monitorare quanto accaduto. La luce solare riflessa dal pennacchio di detriti sollevati dall’impatto è stata invece già osservata dai telescopi del progetto ATLAS (Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System) installati alle Hawaii. (Image credits: NASA)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 21 set, 2022
Dopo essere stati ripresi dal veloce passaggio della sonda robotica Voyager 2 nell'Agosto 1989, anche il telescopio spaziale Hubble riuscì a riprendere il sistema di anelli di Nettuno assieme ad alcuni dei suoi satelliti minori Ma questa ultima immagine, diciamolo pure, batte tutte le precedenti: ed è, ancora una volta, James Webb Spece Telescope, il protagonista, che realizza la prima ripresa di sempre degli oscuri anelli in orbita attorno al gigante blu in luce infrarossa. Gli anelli di Nettuno sono costituiti da polveri molto tenui, che lo rendono simile al sistema di anelli in orbita attorno a Giove. Queste polveri sono poco visibili a causa della presenza di composti del carbonio, dal colore molto scuro, derivanti dall'impatto della radiazione solare con il metano solido: esattamente a quanto rilevato per gli anelli di Urano. Mai, prima d'ora, era stata ottenuta un'immagine così nitida degli anelli di Nettuno, tenendo conto anche dell'enorme distanza del pianeta gigante, situato ad oltre 4,3 miliardi di chilometri dalla Terra o, se vogliamo, a 4,5 ore-luce! Altra cosa davvero emozionante: l'azzurra stella visibile sopra Nettuno...non è una stella bensì il suo enorme satellite Tritone! Dal momento in cui il suolo di Tritone è ricoperto da azoto congelato, questo riflette il 70% della luce solare, portando così il grande satellite ad apparire luminoso in questa ripresa di Webb. La più bella caratteristica di Nettuno è il suo colore blu, causato dal metano presente nella sua atmosfera che assorbe tutta la parte rossa della luce solare: ma poiché lo strumento NIRCam lavora su lunghezze d'onda comprese tra 0,6 μm e 5 μm, ecco che gigante blu in questa ripresa non appare poi...così blu. Poiché il metano assorbe gran parte della luce rossa ed infrarossa, il pianeta appare piuttosto scuro, dove invece risaltano nubi ad alta quota nella sua atmosfera. Nell'immagine si rendono perfettamente visibili anche altre lune di Nettuno. (Image credits: NASA, ESA, CSA, STScI)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 21 set, 2022
La conosciamo tutti per la sua spettacolarità, l'abbiamo sempre vista ovunque, ripresa in differenti modalità, da telescopi professionali e amatoriali che ne mettevano sempre in evidenza il suo bellissimo aspetto di galassia a spirale vista quasi esattamente di profilo, con tanto di banda di polveri equatoriale. Ma nessuno ha mai visto M104, la "galassia sombrero" con le sue enormi, immense code (costitute essenzialmente da stelle e gas) come in questa magnifica foto ripresa dall'astronomo non-professionista Utkarsh Mishra, un giovane ragazzo indiano dedito alla fotografia astronomica: il primo ad aver realizzato questa storica ripresa! Le lunghe code che sembrano avvolgere la galassia e il suo immenso alone - anche questo, mai visto così esteso! - sono state prodotte quasi sicuramente da fenomeni di collisione e fusione galattica: una, o forse più galassie di più piccole dimensioni e massa ne fecero le spese, passate troppo vicine alla bella spirale che ha provveduto a deformarle per poi sfasciarle del tutto. Creando, così, le spettacolari code qui visibili. Considerando che il diametro della parte divisile di M104 è stimato in circa 50.000 anni-luce, la struttura a guscio allungata che sembra avvolgere la galassia dovrebbe estendersi per oltre 300 mila anni-luce.  Simili strutture le ritroviamo anche nel vicinato della Galassia: il "Magellanic stream", il "Sagittarius stream" ed altri ponti di stelle e materia di minore entità sono infatti residui che testimoniano quanto dinamici siano gli incontri tra galassie di diverse masse e dimensioni; si ritiene che molti degli stessi ammassi globulari in orbita attorno alla Via Lattea, molti dei quali sembra siano dotati di altrettanti simili ponti di stelle e gas, siano ciò che resta di piccole galassie che hanno subito lo stesso destino. A lato della ripresa originale, una nostra elaborazione che mette ancor più in evidenza l'impressionante struttura ad anello assieme al vastissimo alone della galassia M104. (Image credits: Utkarsh Mishra Michael Petrasko, Muir Evenden, Team Insight Observatoory)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 20 set, 2022
Questa stupenda ripresa, ad opera bravissimo fotografo Stan Volskiy, mette in evidenza l'incredibile quantità di " Integrated Flux Nebulae " (o IFN), enormi filamenti di idrogeno che vengono illuminati non per eccitazione termica, indotta da calde stelle (come accade alle nebulose ad emissione) quanto per riflesso da parte della luminosità globale della Galassia intera. A causa della loro bassissima luminosità superficiale, che ne ha permesso di rilevarle solo in anni recenti grazie al progresso dei sensori di ripresa, tali sistemi sono ancora in gran parte sconosciuti risultando, complessivamente, poco studiati. Per ottenere questa stupefacente risultato, Stan Volskiy ha ripreso il cielo australe (in LRGB e con l'utilizzo di un filtro H-alpha) attraverso un obiettivo da 200 mm ad F/2 durante 97 notti in 14 mesi, acquisendo 223 ore totali di ripresa. Oltre alle IFN qui visibili, la foto si rende spettacolare anche per l'enorme estensione delle due galassie Grande e Piccola Nube di Magellano: sulla prima, in particolare, ben visibile l'andamento a spirale delle braccia di questa galassia a spirale barrata. Dobbiamo dire che davvero poche volte questi due sono stati visti così luminosi e vasti!  La stella più luminosa presente nel campo, in basso a dx, è l'azzurra Achernar (α Eridani) mentre l'oggetto di apparenza stellare situato sotto la Piccola Nube di Magellano è il luminoso ammasso stellare di tipo globulare 47 Tucanae. (Image credits: Stan Volskiy)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 19 set, 2022
A 32 anni dal lancio, il telescopio spaziale Hubble (NASA/ESA) continua a regalare stupefacenti immagini che rivelano inaspettate proprietà tra gli oggetti analizzati dai team di ricerca. Di recente, lo strumento Wide Field Camera 3 ha ispezionato l'oggetto IRAS 05506+2414 , situato in Taurus e lontano ben 9.000 anni-luce dal Sistema Solare. Scoperto nel 1983 dal satellite IRAS attraverso riprese effettuate nell'infrarosso, si tratta di una giovane e massiccia protostella, immersa in una nube di polveri e gas. Solitamente, stelle di questo tipo incanalano il materiale residuo della nebulosa da cui sono nate in getti diametralmente opposti, verso lo spazio esterno. Nel caso di IRAS 05506+2414 si nota, invece, una struttura a mo' di ventaglio (visibile a dx), costituita da gas sembra allontanarsi a velocità prossima ai 350 chilometri al secondo. Si ritiene che la struttura a ventaglio possa essere stata prodotta dal passaggio di una stella esterna all'interno del sistema di stelle in formazione di IRAS 05506+2414: evento che sicuramente ha deformato e forse interrotto la formazione di ulteriori stelle e, forse, anche di un sistema planetario. Stando così le cose, sarebbe questo il secondo caso noto dopo quello della stella variabile Z Canis Majoris . (Image credits: ESA/Hubble & NASA, R. Sahai)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 08 set, 2022
30 Doradus è il nome con il quale dai cartografi celesti del XIX secolo venne identificata una stella presente nella "Grande Nube di Magellano" che, a differenza delle altre, non appariva puntiforme, netta, bensì sfocata. Questo è, infatti, l'aspetto di quella che è il più vasto complesso di nubi di gas e polveri dell'intero gruppo locale di Galassie: stiamo parlando della nota Soprannominata la "nebulosa tarantola", nomignolo a questa affiliato a causa dei numerosi filamenti con le quali appariva, e ancora oggi appare, all'osservazione diretta effettuata con piccoli e grandi telescopi. La densità dell'idrogeno e di altri gas è tale che in tale nebulosa si sviluppano intensi episodi di formazione stellare, che danno origine a stelle molto massicce. Alcune di queste qui rilevate, anzi, figurano tra le più massicce stelle ad oggi conosciute. L'ultima immagine rilasciata dal team del James Webb Space Telescope ritrae proprio l'area centrale di questo immenso complesso nebulare, il cui diametro di estendersi quasi per 3.000 anni-luce da un capo all'altro; giusto per avere un'idea su questo "mostro" di cui qui parliamo, se la nebulosa tarantola fosse situata alla stessa distanza della nota "nebulosa di Orion", lontana circa 1.340 anni-luce dal Sistema Solare, la sua luminosità sarebbe tale da proiettare ombre alla superficie del nostro pianeta, coprendo un'area nel cielo grande svariate volte il diametro apparente della Luna piena! Nella stupenda immagine di JWST, è ben visibile la grande "cavità" situata all'interno della di questa nebulosa: un vuoto apparente che creato dalla potentissima radiazione delle giovani, calde e massicce stelle che costituiscono il superammasso stellare R136, visibile al centro della ripresa. Membro di questo gruppo stellare è R136a1, una tra le stelle più massicce e più luminose conosciute, la cui massa e luminosità sono rispettivamente in 215 e - occhio! - 6.200.000 volte i corrispettivi solari! Torneremo a parlare su questa stella in un altra pubblicazione. Per quanto riguarda la nebulosa visibile in questa immagine, solo le sue aree circostanti più dense riescono a resistere, in un certo senso, all'erosione dei potentissimi venti stellari emessi da queste formidabili stelle; dal gas e dalle polveri che vengono così compresse, nascono nuove protostelle le quali, alla fine, emergeranno come luminosissime stelle che, a loro volta, continueranno a modellare la struttura della nebulosa. L'immagine è stata ripresa dallo strumento Near-Infrared Camera (NIRCam), principale camera di JWST che riprende la gamma di lunghezze d'onda in infrarosso tra 0,7 e 4,8 micrometri, adiacente alle frequenze della luce visibile. Dal momento in cui il nostro occhio non è assolutamente in grado di rilevare la parte infrarossa dello spettro elettromagnetico, al fine di avere un'idea di come appaiano questi oggetti si ricorre all'espediente di attribuire determinati colori alle lunghezze d'onda dei filtri utilizzati dai sensori installati sul telescopio spaziale: il colore blu è stato quindi attribuito al filtro F090W, che riprende alla lunghezza d'onda di 0,9 µm; il verde al filtro F200W, che lavora a 2,2 µm; il rosso al filtro F444W, che lavora a 4,4 µm; infine, il rosso cupo al filtro F470W, che lavora a 4,7 µm, lunghezza d'onda alla quale emette l'idrogeno molecolare. A lunghezze d'onda maggiori, quelle tra 5 a 28 µm catturate dallo strumento Mid-Infrared Instrument (MIRI), JWST è riuscito a svelare una visione ancora diversa rispetto a quella già affasciante di cui abbiamo parlato sopra: nell'immagine che pubblichiamo al centro di questa pagina, le giovani e stelle calde supermassicce, le componenti del superammasso stellare R136, svaniscono in brillantezza in quanto a tali lunghezze d'onda risaltano i gas incandescenti e le polveri. Cosa poco nota, l'abbondante presenza di idrocarburi contribuisce ad illuminare le nubi di polvere, che qui appaiono di colore blu e violaceo (Image credits: NASA, ESA, CSA, STScI, Webb ERO Production Team)
Autore: Jan Pohlen (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 28 ago, 2022
Segreti e curiosità delle stelle più salienti visibili ad occhio nudo e non solo...
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 27 ago, 2022
Il transito di un esopianeta sul disco della propria stella madre può fornire precise indicazioni sulla composizione della sua atmosfera. Infatti, dal momento in cui la presenza di gas di diverso assorbe diverse combinazioni di colori, piccole differenze di luminosità rilevate su un ampio spettro di lunghezze d'onda forniscono l'opportunità di poter sondare le atmosfere di questi lontani pianeti. Qui, una serie di curve di luce riprese dallo strumento Near-Infrared Spectrograph (NIRSpec) installato su JWST mostra il cambiamento di luminosità di tre diverse lunghezze d'onda (=colori) della luce della stella WASP-39 - distante 700 anni-luce dal Sistema Solare - colte proprio durante il transito del suo pianeta; evento accaduto lo scorso 10 luglio 2022. WASP-39b è un gigante gassoso del tipo "gioviano caldo", con massa circa 0,28 volte quella di Giove e un raggio 1,27 volte quello del gigante del Sistema Solare; tale esopianeta orbita attorno alla sua stella in un orbita veloce, lunga appena 4 giorni. Ebbene, nello spettro dell'atmosfera dell'esopianeta (immagine sopra inserita, sotto la prima), l'evidente picco compreso tra 4,1 e 4,6 micron è prodotto dall'anidride carbonica: e questa è, in assoluto, la prima la prima chiara e dettagliata prova di CO2 in un pianeta al di fuori del Sistema Solare. In precedenza, su questo stesso pianeta i telescopi spaziali Hubble e Spitzer (NASA), avevano rivelato la presenza di vapore acqueo, sodio e potassio nell'atmosfera del pianeta. Poiché le molecole di CO2 costituiscono una sorta di tracciante nella formazione dei pianeti, misurandone con attenzione le caratteristiche è possibile determinare quanto materiale solido rispetto alla controparte gassosa venne utilizzato dal tale gigante gassoso durante la sua formazione: studiare la composizione dell'atmosfera di un esopianeta racconta la sua origine e la sua evoluzione. (Image credits: NASA, ESA, CSA, and L. Hustak (STScI); Science: The JWST Transiting Exoplanet Community Early Release Science Team)
Autore: Stefano Schirinzi (Centro Studi Astronomici Antares Trieste) 26 ago, 2022
Questa splendida immagine ripresa dal nostro bravissimo fotografo Alessandro Cipolat Bares ritrae il cosiddetto "complesso nebulare di ρ Ophiuchi". La stella in questione è la più luminosa presente nel campo, poco sopra il centro. Visibile ad occhio nudo come una singola stella di magnitudine 4,63, ρ Ophiuchi è in realtà un sistema stellare binario, lontano 360 anni-luce dal Sistema Solare. La foto non deve trarre in inganno: la componente secondaria del sistema è separata dalla principale da 3" d'arco, valore che rende necessario un telescopio per poterla discernere. Le due componenti distano tra loro circa 400 UA ed completano un orbita attorno al comune centro di massa in circa 2.400 anni. Entrambe stelle di sequenza principale di tipo spettrale B2 (22.400 K), possiedono valori di massa e luminosità poco differenti: la componente principale ben 13 mila volte più luminosa del Sole e quasi 10 volte più massiccia. Queste stelle massicce sono nate all'interno della cosiddetta Associazione Scorpius Centaurus OB, composta da astri molti massicci. Le altre due stelle, quelle visibili nella foto, le quali formano un piccolo triangolo con ρ Ophiuchi sono ancora più lontane della stessa: rispettivamente, HD147888, la componente a sud, lontana 445 anni-luce, e HD147932, quella situata a nord, lontana 420 anni-luce dal Sistema Solare. La quantità di polveri nella zona è tale che la luminosità di ρ Ophiuchi è di almeno 1,45 magnitudini più debole di quanto, altrimenti, apparirebbe; inoltre, gas e polveri sono causa dello scattering della luce a frequenze più alte, effetto che apporta un arrossamento - valutato con la differenza tra magnitudine della stella nel blu e quella nel visuale - pari a 0,47 magnitudini. Le nebulose che avvolgono ρ Ophiuchi e la stella di 8a grandezza HD147889, situata più in basso, risplendono di un bellissimo colore azzurro. Si tratta di classici esempi di nebulose "a riflessione", nubi di polvere interstellare che riflettono la luce di stelle vicine la cui energia è insufficiente per ionizzare il gas nebulare portandola, così, a risplende. Tuttavia, lo scattering della luce - fenomeno di interazione tra la radiazione stellare e la materia, che porta onde e particelle a cambiare traiettoria a causa delle collisioni - è sufficiente a rendere visibile la polvere stessa: lo spettro di frequenza mostrato di queste particolari nebulose a riflessione è, di conseguenza, simile a quello delle stelle che le illuminano. Tra le particelle microscopiche responsabili dello scattering ci sono composti di carbonio e di altri elementi come ferro e nichel; questi ultimi, in particolare, allineandosi col campo magnetico galattico, rendono la luce delle nebulose a riflessione leggermente polarizzata.
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