In una chiara notte senza Luna, si provi ad esaminare attentamente le singole stelle visibili ad occhio nudo; ci accorgeremo che queste si distinguono non solo perché una brilla più dell'altra ma anche per il loro diverso colore.
Le sfumature sono le più tenui: vi sono stelle bianche con ombre azzurrine, altre tendenti al giallo, qua e là risaltano astri di colore arancione o decisamente rossastri, che conferiscono una pennellata di colore al nero diffuso del cielo. Inoltre, attraverso l’uso di un telescopio, certe coppie di stelle vicine suscitano ammirazione per il contrasto e la purezza di colori osservabili. Il “mondo degli astri” è dunque colorato; sfumature cromatiche che l'occhio umano può facilmente percepire purché lo stimolo ricevuto sia sufficientemente forte.
Lecito chiedersi, quindi, da dove derivi il tono cromatico visibile nella luce delle stelle. La risposta a tale domanda è in realtà semplice: i colori intrinseci delle stelle dipendono dalla loro temperatura superficiale: essenzialmente, le più calde sono azzurre, le più fredde tendono al rosso.
Quasi tutti i corpi incandescenti emettono luce propria il cui colore è determinato dalla composizione della luce irradiata; e non è, poi, difficile analizzarne la luce: facendola passare attraverso un prisma di vetro, essa viene infatti scomposta nelle tinte dell'iride, che si estende dal rosso al violetto: quanto ottenuto è il cosiddetto “spettro continuo” di una sorgente luminosa, dove non c'è soluzione tra un colore e l'altro ma un graduale e quasi impercettibile cambiamento di tinte che vanno dall'estremo violetto per passare al blu, all'azzurro, al verde, al giallo, all'arancione, al rosso vivo e da questo al rosso cupo.
Questi sono i colori, o meglio, la parte “visibile” dello spettro emesso da una sorgente, la parte alla quale l'occhio umano è sensibile; come noto, infatti, lo spettro (ovvero l’emissione di una sorgente) prosegue, dalla parte del violetto, nell'ultravioletto (UV) per arrivare ai raggi X e gamma mentre dalla parte opposta si estende nell'infrarosso per arrivare alle onde radio e alle microonde.
Le radiazioni “visibili” dello spettro elettromagnetico hanno frequenze e lunghezze d’onda diverse, producendo così l'effetto fisiologico dei colori: in media, la radiazione del rosso corrisponde ad una radiazione con una lunghezza d'onda di 700 nm, quella del giallo a 600 nm, quella del verde a 500 nm e quella del violetto a 400 nm.
Le lunghezze d’onda di tali radiazioni sono davvero piccole; un nanometro (nm), infatti, corrisponde ad 1 miliardesimo di metro! Nel Sistema Internazionale, tale unità di misura usata soprattutto per misurare le lunghezze d'onda delle radiazioni viene espresso in “angstrom” (A, chiamata così in onore del fisico svedese Anders Angstrom, autore di studi importanti sullo spettro solare e su quello delle aurore boreali), unità ancora più piccola dal momento in cui 1 A corrisponde ad 1 decimo di nm!
Le stelle sono immensi globi composti da gas incandescente. Quando la loro temperatura superficiale è bassissima, come nel caso delle cosiddette “nane brune” (corpi che in realtà non hanno mai avviato la produzione di energia, così come accade nelle comuni stelle, a causa della loro modesta massa), esse sono quasi del tutto invisibili e la loro presenza può essere accertata solo da delicati strumenti sensibili all'infrarosso.
Stelle con temperature superficiali attorno ai 3.000 gradi sono globi infuocati la cui luce si rivela in tipici bagliori rossastri; con l'aumentare della temperatura, lo splendore si fa più vivo e la colorazione dell'astro si sposta dapprima verso il giallo, poi sul bianco; a temperature di 20-30 mila gradi, le stelle irradiano una luce abbagliante bianco-azzurra. L'energia che, partendo dalla "centrale nucleare" sita nel loro nucleo, si propaga sino alla superficie, viene da questa irraggiata nello spazio sotto forma di luce è detta luminosità.
Questo flusso energetico che arriva a noi dipende principalmente dalle dimensioni e dalla temperatura superficiale stellare; in altre parole, una stella dalla bassa temperatura può comunque raggiungere un'altissima luminosità se il suo raggio è enorme, anche centinaia di volte superiore a quello del Sole.
Lo splendore con cui una qualsiasi stella appare osservata ad occhio nudo o attraverso un telescopio dipende sia dalla sua luminosità che dalla sua distanza.
Questo splendore è la cosiddetta “magnitudine apparente” che rappresenta, in definitiva, il sistema di misura della sua luminosità; c’è da dire che mentre in Fisica la luminosità di un oggetto viene misurata in watt, per ragioni puramente storiche in Astronomia la luminosità degli astri viene misurata in magnitudini (dal latino magnitudo = grandezza). Le luminosità stellari giudicate sulla base della risposta dell'occhio umano vengono dette "visuali" e furono le uniche usate prima dell'avvento della fotografia astronomica.
La luminosità intrinseca di ogni sorgente di luce si attenua con il suo allontanarsi dall'osservatore, di conseguenza è stato introdotto il concetto di “magnitudine assoluta”, definita come la luminosità (espressa anche questa in magnitudini) che la stella avrebbe se si trovasse ad una distanza standard da noi, fissata per convenzione in 10 parsec (ovvero 32,6 anni-luce). Il parsec (pc) è una unità di misura delle distanze astronomiche ed è fornito dal metodo della "parallasse trigonometrica"; rappresenta la distanza dalla quale un ipotetico osservatore vedrebbe il semiasse maggiore dell'orbita della Terra attorno al Sole sotto un angolo di 1" d’arco (1 pc = 3,2615 anni-luce).
Dunque, il tipo di energia che arriva a noi e, soprattutto, le varietà di temperature superficiali presenti nelle stelle sono gli artefici dei mille colori del firmamento. La stima qualitativa degli stessi appare, però, ardua: dal rosso cupo all'arancione, dall'azzurro al violetto vi sono mille e mille sfumature, mille gradazioni di tinte cromatiche a ciascuna delle quali fa riscontro una particolare temperatura della sorgente!
Per legare, con precisione, colore e temperatura è stato necessario trovare il modo per misurare il tono o la gradazione cromatica con la stessa precisione con cui si misura, ad esempio, il peso di un corpo o l'area di una figura piana. Tale risultato lo si ottiene ottenuto introducendo il cosiddetto "indice di colore", che rappresenta un valore matematico del colore di una stella e, di conseguenza, il valore della sua temperatura superficiale: l’indice di colore è dato dalla differenza B-V tra la magnitudine visuale (per l’appunto, nel visibile) e quella fotografica ordinaria (nel blu).
La magnitudine visuale indica la luminosità apparente dei corpi celesti come appaiono ai nostri occhi, quanto più l'oggetto è luminoso, tanto più piccolo è il valore della magnitudine. La magnitudine fotografica è quella ricavata dalle dimensioni dell'immagine di una stella su una lastra fotografica. Sono entrate in uso da molti anni le "magnitudini fotografiche B", che si ottengono fotografando le stelle su lastre ordinarie con massima sensibilità nel blu-violetto. L'indice di colore (B-V) di una stella viene definito come la differenza tra la magnitudine fotografica B e la magnitudine visuale V della stella stessa.
Questo indice ci consente di esprimere con numeri interi e decimali la colorazione degli astri, di coglierne le minime sfumature, anche quelle che sfuggirebbero all'occhio più esercitato: è un valore negativo per le stelle azzurrognole, nullo per le stelle bianche e positivo per le stelle gialle e rosse. (Image credits: Hubble Space Telescope / NASA)
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